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Scopri cosa causa l'ansia e come gestirla.

Molti di noi sperimentano un certo livello di ansia, che sia dovuto alla preoccupazione per l'affitto o allo stress generato dalle situazioni sociali, l'ansia è molto comune

Ma, a volte, l'ansia inizia a dominare le nostre vite e a limitare la nostra libertà di azione. È in questi casi che alle persone potrebbe essere diagnosticato un disturbo d'ansia. 

L'ansia è uno dei problemi di salute mentale più comuni nel mondo. 

Ma che cosa significa avere un disturbo d’ansia? E, soprattutto, come si sviluppano i disturbi legati all'ansia?

Attingendo ad informazioni provenienti dalla tradizione psicoanalitica, dalla terapia cognitivo-comportamentale e dagli interventi più innovativi nel campo delle neuroscienze, cercheremo di capire come è possibile sviluppare strategie per mantenere sotto controllo l'ansia.

L'ansia una volta era vista come una parte essenziale dell'essere umano.

Il concetto di ansia esiste da secoli. La parola ha origine dal latino ango, passato di anxi, che significa "stringere", "soffocare". Nel 1844, il teologo danese Kierkegaard sostenne che l'ansia è una conseguenza diretta della capacità umana di poter prendere decisioni, del libero arbitrio. 

L'ansia una volta era vista come una parte essenziale dell'essere umano. Questa visione dell'ansia, come un'emozione normale e persino necessaria, è stata molto influente ed ha ispirato una vasta gamma di teorie e di filosofi come ad esempio Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre. 

Ma poi, all'inizio del ventesimo secolo, Sigmund Freud ha presentato una visione molto diversa dell'ansia. 

Freud ha sostenuto che l'ansia è centrale per una serie di disturbi psicopatologici ed è una conseguenza del fatto che abbiamo cercato di reprimere traumi e ricordi spiacevoli. Poiché non stiamo affrontando attivamente questi problemi, essi diventano tossici e, di conseguenza, ci rendono neuroticamente ansiosi. I metodi psicoanalitici di Freud implicavano il tentativo di trovare la causa sottostante dell'ansia. Freud credeva che se il trauma represso fosse stato affrontato, l'ansia sarebbe scomparsa. 

La teoria di Freud ha cambiato radicalmente il modo in cui percepiamo l'ansia. L’ ansia è passata dall'essere vista come una parte normale dell'essere umano all'essere considerata come un segno di patologia, un indicatore di qualcosa che non va e che deve essere aggiustata. 

Oggi, una semplice ricerca su Google per la parola "ansia" produrrà oltre 20 milioni di risultati, ma cercando “anxiety” i risultati saliranno ad oltre 300 milioni. Quindi, chiaramente, i disturbi d'ansia sono qualcosa di cui ci interessiamo molto. Ma c'è ancora un sacco di confusione su cosa significhi effettivamente essere ansiosi. 

Esamineremo ciò che distingue un disturbo clinico d'ansia dalle normali ansie e preoccupazioni quotidiane. 

 

I criteri per la diagnosi dei disturbi d'ansia cambiano costantemente.

Quando la normale “ansia” si trasforma in un disturbo clinico? 

La responsabilità di diagnosticare un disturbo d'ansia di solito spetta ad uno psicologo o ad uno psichiatra. Per capire come gli psicologi e gli psichiatri prendono queste decisioni, dobbiamo dare un'occhiata al Manuale Diagnostico e Statistico (DSM). 

Il DSM è stato rilasciato dall'American Psychiatric Association a metà del XX secolo ed è ora la guida principale utilizzata per classificare i disturbi psicologici e psichiatrici. 

La prima edizione del DSM divideva i disturbi mentali in psicosi e nevrosi. L'ansia rientrava in quest'ultima categoria, sotto il nome di nevrosi d'ansia. 

Nel 1980, la terza edizione del DSM ha suddiviso questo termine in disturbo d'ansia generalizzato (GAD) e disturbi di panico. La quarta edizione, pubblicata nel 1994, ha ampliato queste categorie e aggiunto disturbo da stress post-traumatico (PTSD) e fobie specifiche.

Appare dunque chiaro che i criteri per la diagnosi dei disturbi d'ansia cambiano costantemente. 

Per fare una diagnosi, uno psicologo valuterà i sintomi del proprio cliente rispetto a una lista di controllo fornita dal DSM. La presenza di un certo numero di sintomi corrispondenti a quelli descritti nel DSM permette di classificare una persona come affetta da un disturbo d'ansia. 

Il DSM è stato criticato per aver tentato di semplificare un disturbo molto complesso utilizzando una riduttiva lista di controllo, così come per aver assegnato alle persone etichette psichiatriche potenzialmente stigmatizzanti e difficili da cancellare. Tuttavia ha anche reso queste diagnosi più legittime, il che ha consentito alle persone di accedere ai servizi di salute mentale, di presentare richieste alla propria assicurazione e di cercare supporto da datori di lavoro ed insegnanti.

Ma cosa rende qualcuno suscettibile di sviluppare un disturbo d'ansia? Perché alcune persone attraversano traumi fisici e psicologici senza alcuna conseguenza dal punto di vista della salute mentale, mentre altri sviluppano un disturbo post traumatico da stress (PTSD) anche a seguito di un banale incidente?

Gli studi hanno rivelato tre fattori che possono entrare in gioco. 

Il primo è la genetica: i disturbi d'ansia possono essere ereditati da un genitore o tramandati di generazione in generazione. Il secondo riguarda la disposizione psicologica generale delle persone e il modo in cui gestiscono l'incertezza. Ed il terzo ha a che fare con le esperienze di apprendimento e l'ambiente in cui si cresce e si vive.  

Abbiamo tutti gli stessi istinti di sopravvivenza sviluppati per contrastare le minacce.

Gli animali selvatici sono costantemente alla ricerca di indizi riconducibili a potenziali minacce. Devono esserlo! Una semplice esplorazione finalizzata a procacciarsi il cibo può essere fatale se si incontra un predatore. 

All'inizio del XX secolo, il fisiologo Walter Cannon sviluppò il famoso concetto di reazione di "combattimento o fuga". La teoria ha delineato i meccanismi automatici di sopravvivenza che gli animali (uomo incluso) impiegano di fronte ad una minaccia. 

Se gli animali si trovano ad affrontare un predatore (o qualche altro pericolo) possono congelarsi e fingersi morti, scappare oppure reagire ed impegnarsi in un combattimento.

Gli esseri umani sono cablati con gli stessi istinti di sopravvivenza. Pensa a come reagisci quando incontri un cane che abbaia o ti senti minacciato da un collega ostile. Ti si gela il sangue? Vuoi scappare? O senti che il corpo ti spinge a reagire? Questi sono i meccanismi di sopravvivenza all'opera. 

Tutti abbiamo istinti di sopravvivenza ben sviluppati per contrastare le minacce.

Quando ci sentiamo minacciati, il nostro sistema nervoso simpatico entra in azione. Iniziamo a respirare più velocemente e i nostri cuori battono più forte. Questo fornisce più energia ai nostri muscoli. Il sangue viene diretto lontano dal nostro intestino, dalla pelle e dagli arti. 

Quindi, quando fuggiamo o combattiamo il sangue viene pompato nelle aree muscolari, dov'è più utile. Il midollo surrenale rilascia adrenalina nei nostri corpi, riempiendoci di energia.

Tutto il nostro corpo è coinvolto nella risposta finalizzata alla sopravvivenza, in fondo potrebbe essere l'ultima!

Ma come sappiamo cosa costituisce una minaccia? 

Principalmente impariamo a conoscere il pericolo attraverso l'esperienza (ampliando in tal modo il repertorio già vasto di paure specie - specifiche). Ad esempio, se un coniglio viene attaccato da una lince in un particolare abbeveratoio, assocerà le linci - così come quel particolare ambiente - al pericolo. La prossima volta che sarà all'abbeveratoio si comporterà in modo difensivo, anche se non è presente alcun pericolo reale. 

Gli esseri umani hanno meccanismi di sopravvivenza evolutivi particolarmente sofisticati. Non impariamo a conoscere il pericolo solo attraverso le nostre esperienze; abbiamo anche la capacità di apprendimento basato sull'osservazione (apprendimento vicariante). 

Se assistiamo al pestaggio di un'altra persona all'angolo di una strada buia, estrapoleremo che lo stesso angolo potrebbe rappresentare un pericolo per noi in futuro. Possiamo anche conoscere le minacce tramite istruzioni verbali. Ad esempio, i bambini vengono spesso avvertiti dei pericoli che dovranno affrontare nel mondo: fuoco, lame affilate, o estranei inaffidabili. Quando incontreranno una minaccia di cui hanno sentito parlare, il loro istinto di sopravvivenza entrerà automaticamente in azione. 

I nostri sistemi di sopravvivenza integrati sono fondamentali; ci aiutano a restare in vita. Ma a volte possono andare in sovraccarico (soprattutto se guardiamo troppi telegiornali), facendoci percepire minacce dove non esistono. 

 

Avere un disturbo d'ansia ti mette in allerta per potenziali minacce.

Immagina quanto sarebbe terrificante camminare fino al negozio all'angolo se credessi che ad ogni passo che fai potresti  attivare una mina nascosta. Mentre gli altri vedono semplicemente una strada tranquilla, tu percepisci il pericolo ad ogni angolo.

Le persone che soffrono di disturbi d'ansia sono ipervigilanti verso possibili minacce. Con una fobia specifica, come l'aracnofobia, questa vigilanza è diretta verso un oggetto particolare. I disturbi d'ansia sociale mettono le persone in massima allerta quando si trovano in contesti sociali, il che significa che una riunione tra vecchi amici si trasforma inevitabilmente in un campo minato di potenziali umiliazioni. 

Avere un disturbo d'ansia causa uno stato di allerta per potenziali minacce anche quando il contesto appare, ad un’analisi razionale, ragionevolmente sicuro.

Questa ipervigilanza mantiene i sistemi di sopravvivenza in uno stato di costante attività, il che significa che il sistema nervoso simpatico entra in azione con elevata frequenza. 

Ciò innesca il rilascio nel cervello di ormoni dello stress come l'adrenalina e il cortisolo . I nostri corpi sono ora pronti ad affrontare il pericolo e le nostre menti si concentrano esclusivamente sulla fonte delle probabili minacce. 

Le persone che hanno disturbi d'ansia spesso hanno difficoltà a distinguere tra minacce reali ed immaginarie, il che significa che hanno reazioni sproporzionate a situazioni che in realtà non rappresentano un pericolo per la loro sopravvivenza. Inoltre sovrastimano la probabilità che le cose vadano male e sottovalutano la propria capacità di far fronte alle situazioni difficili.

Questi sentimenti possono essere molto angoscianti, quindi le persone con disturbi d'ansia spesso fanno di tutto per evitare qualsiasi situazione potenzialmente scomoda (si attiva un meccanismo di evitamento).

Chi ha paura delle altezze potrebbe evitare tutti gli edifici alti e chi ha l’ansia sociale potrebbe assicurarsi di essere circondato sempre da persone che conosce bene. 

Le persone con disturbo d'ansia generalizzata non hanno un trigger (attivatore) specifico da evitare. Tuttavia sperimentano un flusso costante di pensieri ansiosi su qualsiasi aspetto della loro vita. Da notare che questo tipo di pensiero è di per sé una forma di comportamento evitante, le preoccupazioni infatti tengono la nostra mente così occupata con un monologo interiore incessante che non siamo più in grado di esaminare adeguatamente i nostri pensieri e di metterli alla prova confrontandoli con la realtà. 

Evitare i potenziali fattori scatenanti dell'ansia può portare ad un sollievo temporaneo. Tuttavia, questa strategia spesso costringe le persone a limitarsi in uno spazio di movimento sempre più ridotto. Dal momento che le paure non sono mai affrontate frontalmente tenderanno ad essere percepite come sempre più minacciose. 

La paura e l'ansia sono sentimenti che gli esseri umani elaborano consapevolmente.

I neuroscienziati hanno imparato molto di ciò che sanno sul cervello umano da esperimenti sugli animali. Osservando come gli animali come i ratti rispondono alle minacce, sono stati in grado di raccogliere importanti intuizioni su come funzionano i sistemi di sopravvivenza umana. 

Nella letteratura scientifica, gli animali che rispondono ad una minaccia con un comportamento di congelamento o di aggressione vengono descritti come animali che mostrano risposte di paura. Questo potrebbe portarci a concludere che gli animali provano paura proprio come la provano gli umani. Ma questo è un malinteso; c'è una differenza cruciale tra avere una risposta difensiva e di sopravvivenza di fronte a un attacco e provare consapevolmente l’emozione di paura. 

La paura e l’ansia sono sentimenti che gli esseri umani elaborano (anche) consapevolmente.

La risposta di sopravvivenza è gestita da circuiti cognitivi istintivi e inconsci che si attivano nel nostro cervello in risposta a determinati stimoli. Può entrare in azione senza che noi sentiamo nulla. Al contrario, la paura e l'ansia sono create da processi cognitivi coscienti. 

Le nostre menti coscienti interpretano le nostre sensazioni e i nostri ricordi e mettono insieme una storia su ciò che sta accadendo. Creano significato, dando un senso a ciò che vediamo, ascoltiamo e sperimentiamo nel mondo. 

Prendi la sensazione di paura, per esempio. 

Quando percepiamo una minaccia, come la vista di un serpente, la nostra risposta di difesa entra in azione. La nostra attenzione e la nostra memoria di lavoro si focalizzano sulle informazioni sensoriali che riceviamo dal mondo esterno e sulle risposte fisiologiche che si attivano automaticamente nel nostro corpo (aumento del battito cardiaco, della respirazione e della tensione muscolare). 

La nostra memoria semantica ci consente di identificare esattamente ciò che abbiamo visto e di classificarlo eventualmente come un serpente velenoso.
La nostra memoria episodica inserisce il serpente in una storia su come la minaccia si relaziona alla nostra storia personale, forse ci farà immaginare le conseguenze future se dovessimo essere morsi, o potrebbe mettere in relazione il serpente con un simile incidente che ci è accaduto nel passato. 

A quel punto, la nostra mente (nello specifico il modulo che ha il compito di interpretare e dare senso e continuità) etichetterà consapevolmente ciò che proviamo come "paura" o "ansia". 

Quando i ricercatori cercano di capire l’ansia e la paura basando la loro conoscenza esclusivamente sugli esperimenti con animali, rischiano di non vedere una parte importante del problema. Rischiano di confondere le risposte automatiche che si innescano per massimizzare la sopravvivenza con il sentimento narrato dalla nostra parte cosciente di paura e di ansia.  Trattare l’ansia semplicemente inibendo la manifestazione e la percezione dei segnali corporei relativi al rilevamento delle minacce (psicofarmaci) non aiuta a comprendere un fenomeno che è decisamente più complesso.

Da un lato, togliere ad un soggetto la possibilità di decodificare i segnali di pericolo che il suo corpo gli invia può esporlo ad una sottostima di eventuali rischi reali presenti nel suo contesto, dall'altro la minore percezione di feedback corporei non sempre è sufficiente a diminuire quell'angoscia esistenziale che è legata più all'io narrante che al rilevamento di minacce da parte dei sistemi di controllo.

 

L’approccio psicoterapeutico è efficace nel trattamento dell'ansia.

Abbiamo tutti in mente la scena tipica dello psicologo psicoterapeuta che prende appunti e si accarezza la barba mentre la sua cliente è stesa sul divano intenta a parlare della propria infanzia. 

Questa scena è ispirata dalla  psicoanalisi dell'era freudiana e, sebbene Freud sia stato uno dei primi a introdurre il concetto di ansia in psicologia, non è molto rappresentativa degli attuali approcci terapeutici. Freud ha usato la terapia della parola per arrivare alla radice dei problemi psicologici scavando nel passato di un paziente. Oggi, tuttavia, la maggior parte dei trattamenti terapeutici per l'ansia si basa su approcci che sono più interessati al modo in cui le persone si comportano nel presente. 

Le più efficaci terapie psicologiche moderne mirano ad aiutare le persone ad identificare i modelli di reazione istintivi, modelli che spesso risultano disfunzionali perché assecondano la naturale tendenza all'evitamento.

Identificare i comportamenti di evitamento e sostituirli con una graduale esposizione agli stimoli percepiti come minacciosi è la strategia alla base di quella che, per l’appunto, prende il nome di terapia dell’esposizione.

La terapia basata sull'esposizione può essere vista come la versione scientifica del vecchio detto che invita a risalire subito sul cavallo dopo una brutta caduta.

L'idea è che, se sostituisci rapidamente il ricordo di un’esperienza dolorosa  con un ricordo meno negativo, quell'esperienza non si trasformerà in una fobia, non genererà ne avversione ne evitamento.

La terapia dell'esposizione (e forse la terapia psicologica in generale) funziona secondo questo stesso principio. 

Ad esempio, se un paziente ha paura degli ascensori, un terapista potrebbe iniziare mostrandogli fotografie di ascensori o incoraggiandolo a pensare agli ascensori. 

Dopo l’esposizione lo inviterà a rilassarsi completamente per poi proseguire con esposizioni sempre più concrete fino ad arrivare ad utilizzare un vero ascensore.

Queste ripetute esposizioni mostrano al paziente (alla parte istintiva del paziente, quella razionale di solito lo sa già!) che può salire in ascensore e sopravvivere. A poco a poco, le associazioni negative legate agli ascensori vengono sostituite da altre più neutre. Questo processo è noto in termini scientifici come estinzione.

La terapia dell'esposizione può aiutare anche le persone con disturbi d’ansia generalizzata (GAD) creando uno spazio mentale per identificare i fattori scatenanti dell'ansia e il tipo di preoccupazioni automatiche che ne derivano. Ai pazienti viene mostrato come valutare oggettivamente il pensiero catastrofico e trovare alternative più plausibili. Scavando in profondità nelle preoccupazioni stesse e vedendo quanto siano sproporzionate, queste minacce iniziano a perdere il loro potere.

Nella migliore delle ipotesi il paziente impara a guardare ai propri pensieri con distacco, come se fossero programmi dati in tv. Impara che, così come avviene in televisione, anche con il palinsesto proiettato della nostra testa possiamo sempre decidere di cambiare canale.

 

La terapia dell’esposizione è molto efficace, ma ha anche dei limiti.

La terapia dell'esposizione ha dimostrato di avere un tasso di efficacia nella cura dell'ansia di circa il 70%. Ma ci sono delle limitazioni.

L'estinzione delle associazioni negative è molto specifica e vincolata al contesto; qualcosa che impari nello studio del terapeuta potrebbe non essere trasferibile nel mondo reale. Oppure potresti riuscire a vincere le tue paure solo in determinati contesti, magari quando il livello di complessità appare minore. 

Ma ciò che minaccia maggiormente i risultati ottenuti con la terapia dell’esposizione è la possibilità che un ulteriore trauma ne annulli gli effetti. Ad esempio, potresti improvvisamente scoprire di avere di nuovo paura di guidare dopo essere stato coinvolto in un incidente d'auto. È anche possibile che le vecchie associazioni tornino dopo che è trascorso un po’ di tempo, in quella che viene definita una ripresa spontanea. 

Un altro problema con la terapia dell'esposizione è che si possono estinguere solo le associazioni che il paziente ricorda consapevolmente. Ma la maggior parte dei nostri ricordi, o meglio delle nostre associazioni, è sepolta nell'inconscio cognitivo (non quello di Freud!).

Fortunatamente, ci sono strategie che i terapisti possono adottare per rendere la terapia di esposizione più duratura ed efficace. Ad esempio, possono assicurarsi di lavorare con i loro clienti in molti contesti diversi, in modo che il trattamento sia efficace in situazioni diverse.

Molte rielaborazioni da parte del sistema cognitivo avvengono nelle quattro-sei ore successive alla fine di una sessione di psicoterapia. Se quelle ore sono molto dense di impegni buona parte del lavoro terapeutico rischia di essere annullato. Questo inconveniente potrebbe essere risolto con qualcosa di semplice come fare un pisolino dopo una sessione di terapia psicologica o fissare gli incontri che prevedono l’utilizzo della terapia dell’esposizione alla fine della giornata lavorativa. 

È ben documentato che il sonno accelera il lavoro del cervello, anche per questo si consiglia a chi ha subito un trauma che non vuole ricordare di evitare di dormire nelle ore immediatamente successive all'incidente.

 

I ricordi possono essere recuperati e sovrascritti con nuove informazioni.

Cancellare i ricordi dolorosi può portare sollievo, tuttavia comporta anche la perdita di informazioni vitali per la nostra sopravvivenza.

L'idea di cancellare i ricordi mette le persone a disagio, è quasi un tabù. Tuttavia è noto che i ricordi possono essere recuperati e aggiornati (sovrascritti) con nuove informazioni.

Quando LeDoux ed i suoi colleghi hanno pubblicato un articolo dove si descriveva una tecnica per cancellare i ricordi traumatici nei ratti, la reazioni sono state molto forti. 

Durante l'esperimento, i ratti sono stati sottoposti a diverse sessioni nelle quali un forte rumore era seguito da una scossa elettrica. Essendo stati condizionati ad associare il rumore al pericolo, i ratti hanno mostrato risposte difensive - come il congelamento - in tutti gli episodi successivi nei quali veniva presentato il rumore anche in assenza della scossa.

Iniettando una sostanza capace di bloccare la sintesi delle proteine ​​in una parte del cervello chiamata amigdala laterale, i ricercatori sono in grado di cancellare la memoria traumatica. Ciò ha completamente annullato il comportamento difensivo nei topi. In linea teorica una procedura simile potrebbe essere applicata anche agli esseri umani ma, come è ipotizzabile, questa strada per ovvi motivi etici non verrà mai percorsa.

Sebbene l'idea che i nostri ricordi vengano manomessi è spaventosa, dobbiamo tuttavia riconoscere che la maggior parte dei metodi psicologici esistenti altera già, in qualche misura, i ricordi dei pazienti. La psicoanalisi implica il "recupero" dei ricordi repressi. La terapia cognitiva implica la discussione e la ricontestualizzazione dei ricordi in modo da poterli vedere in modo diverso. I ricordi sono modificabili, numerosi studi hanno dimostrato e confermato che ogni volta che un ricordo viene recuperato, può essere rimodellato e sovrascritto con nuove informazioni.

Questa è una buona notizia soprattutto per gli psicologi che cercano un modo per aiutare le persone a convivere con i loro ricordi e le loro associazioni traumatiche. Tuttavia, sebbene la memoria appare modellabile e dinamica, in realtà risulta molto difficile cancellare completamente la traccia delle memorie veramente dolorose che gli esseri umani hanno sperimentato sulla loro pelle. 

Le strategie di coping attivo possono aiutarti a regolare l’ansia.

La ricerca di George Bonanno ha dimostrato che le persone che sono in grado di attingere a una serie di strategie di coping attivo sono molto resistenti di fronte all'ansia. 

Ad esempio, una persona socialmente ansiosa può far fronte al proprio disagio ad una festa facendo alcune pause per andare in bagno o uscendo per fare una telefonata. 

Questo può sembrare un comportamento evitante, comportamento che abbiamo definito in precedenza come negativo, tuttavia l'evitamento proattivo può essere un'utile strategia di coping perché consente alle persone di riorganizzarsi e tornare alla festa senza essere troppo sopraffatte. 

Le strategie di coping attivo (il coping indica l’insieme delle strategie cognitive e comportamentali messe in atto da una persona per fronteggiare una situazione di stress) possono aiutarti a regolare la tua ansia.

A volte, il coping attivo può consistere semplicemente nel cercare il conforto degli altri dopo un evento traumatico. Ad esempio, nei giorni successivi all'inizio della pandemia molte persone sono rimaste congelate davanti ai loro televisori, intrappolate nel ciclo infinito di notizie. Al contrario fare una telefonata ad amici e parenti per scambiare due chiacchiere e magari sdrammatizzare la situazione può essere un modo alternativo di reagire ad una situazione di oggettivo pericolo.

Altre strategie di coping attivo, che negli ultimi anni sono state confermate da una enorme mole di prove scientifiche, includono esercizi di respirazione e pratiche di meditazione.

Quando diventiamo ansiosi, la nostra risposta automatica fa sì che il respiro diventi veloce e superficiale. Accorgersi di questi cambiamenti fisiologici è il primo passo necessario per poter avviare una strategia di coping. Fare consapevolmente alcuni respiri profondi e lenti ci farà sentire immediatamente più calmi. 

La meditazione è ancora più potente. Tecniche come l'attenzione focalizzata o il monitoraggio aperto, noto anche come consapevolezza, sono indispensabili per allenare le persone a rallentare il frenetico vortice di pensieri che spesso accompagna gli stati ansiosi.

La meditazione ha una storia lunga, è presente in una qualche forma in quasi tutte le religioni, ed ora è stata rivalutata anche dalla scienza con la nuova veste modernizzata che prende il nome di mindfulness

In estrema sintesi meditare significa concentrare tutta la propria attenzione su uno stimolo semplice, ad esempio sulla respirazione o sul battito cardiaco accettando che, inevitabilmente, dopo pochi secondi il cervello tenterà di riprendere il suo discorso interno, con le sue previsioni e strategie per il futuro o con le sue preoccupazioni ed i suoi sensi di colpa per gli errori del passato.

Il compito di un “bravo meditatore”  consiste semplicemente nell'avere la pazienza di accorgersi di questi cambiamenti dell’attività mentale e riportare tutta la sua attenzione sullo stimolo semplice.

Questo è un esercizio che allena il cervello a rallentare e ad osservare se stesso. Nell'immediato è utile per bloccare il flusso ininterrotto di pensieri emotivamente perturbanti, ma con il tempo la pratica della meditazione ci permetterà di guardare il nostro “io” con maggiore distacco. La meditazione può insegnarci ad essere "senza sé", cioè a smettere di prendere i nostri pensieri in modo così personale. Ciò renderà automaticamente l'ansia meno persuasiva. 

Le capacità di coping attivo sono molto soggettive. Quello che potrebbe essere un balsamo per l'ansia per una persona potrebbe sembrare opprimente e stressante per un’altra. Il coping attivo consiste nell'identificare ciò che funziona per te e nel tenere sempre a portata di mano una serie di queste tecniche da utilizzare a comando. Evidentemente le tecniche migliori sono quelle che puoi utilizzare in ogni luogo e in assenza di specifiche attrezzature, è chiaro che una lunga passeggiata in riva al mare ha maggiore efficacia di una breve sessione di meditazione, tuttavia se sei in fila alle poste la prima strategia di coping risulta impraticabile, mentre la seconda è perfettamente fattibile (n.b.: non è affatto vero che per meditare bisogna assumere una postura zen in un contesto minimalista).

In conclusione si può riassumere affermando che i disturbi d'ansia sono complessi da diagnosticare e da trattare perché l'ansia coinvolge tanti tipi diversi di processi del nostro cervello. Le persone con disturbi d'ansia sono ipervigilanti e ipersensibili a potenziali pericoli o minacce, il che significa che i loro sistemi automatici di sopravvivenza sono costantemente in allerta. Tuttavia l'ansia non è solo una sensazione viscerale (controllabile con gli psicofarmaci), è anche una sensazione che elaboriamo consapevolmente. Un trattamento efficace per l’ansia dovrà quindi affrontare tutti gli aspetti con i quali l'ansia si manifesta.

 

Per maggiori informazioni Ansia, Raffaello Cortina Editore 2016, un libro scritto da Joseph LeDoux.